IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE Ha pronunziato la seguente ordinanza sul ricorso n. 309/96 proposto dalla societa' Anfora S.r.l. rappresentata e difesa dagli avv. Vittorio Domenichelli e Franco Zambelli, con elezioni di domicilio presso lo studio del secondo in Venezia - Mestre, via Cavallotti n. 22; contro il comitato regionale di controllo della regione Veneto, in persona del legale rappresentante pro-tempore, costituito in giudizio col patrocinio dell'Avvocatura distrettuale dello Stato di Venezia, presso cui e' domiciliato in Venezia, san Marco n. 16; e nei confronti del comune di Noventa Padovana, in persona del sindaco pro-tempore, costituito; per l'annullamento dell'ordinanza del C.R.C., sezione di Padova n. 3885/6477 del 5 settembre 1995, con cui e' stata annullata la delibera del consiglio comunale di Noventa Padovana n. 14 del 2 maggio 1995; Visto il ricorso notificato il 24 e 26 gennaio 1996 e depositato presso la segreteria il 30 gennaio 1996, con i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio dell'Amministrazione regionale resistente; Visti gli atti tutti della causa; Uditi all'udienza pubblica del 4 luglio 1996 (relatore il consigliere Depiero) gli avv. Domenichelli, per la ricorrente, e Brunetti per l'Amministrazione; Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue: F a t t o La societa' ricorrente rappresenta di essere proprietaria della quasi totalita' delle aree ricomprese nel p.e.e.p. del comune di Noventa Padovana, approvato con delibera della giunta provinciale n. 2556 del 17 novembre 1988, non ancora attuato per mancanza dei fondi necessari per l'espropriazione e la realizzazione delle opere di urbanizzazione. La societa' di fatto impossibilitata a utilizzare i fondi di sua proprieta' prononeva al comune di attuare essa stessa le previsioni del piano, cioe' eseguire le necessarie opere di urbanizzazione e realizzare i fabbricati, a condizioni da concordare tramite stipula di un'apposita convenzione che stabilisse le modalita' costruttive e tipologiche degli edifici, i criteri per la determinazione e revisione dei canoni di locazione e il prezzo di cessione degli alloggi. Con deliberazione n. 14 del 2 maggio 1995 il comune aderiva alla proposta e approvava lo schema di convenzione. Il C.R.C. del Veneto, sezione di Padova, dapprima interloquiva e poi definitivamente annullava il provvedimento, ritenendolo contrastante con l'art 10 della legge n. 167/62 (come modificato dall'art. 35 della legge n. 865/71) che impone una generalizzata espropriazione delle aree destinate all'edilizia economica e popolare. Avverso detto annullamento agisce la ricorrente societa' "Anfora", deducendone, con un unico articolato motivo, l'illegittimita' sotto i seguenti profili: erronea e falsa applicazione dell'art. 10 della legge 18 aprile 1992, n. 167 (come modificato dall'art. 35 della legge 22 ottobre 1971, n. 865), anche in relazione all'art. 11 della legge 7 agosto 1990, n. 241. Il Comitato di controllo, nella diffusa motivazione dell'ordinanza di annullamento, rileva che l'art. 35, impone ai comuni la generalizzata epropriazione dei fondi compresi nei p.e.e.p. e la loro successiva assegnazione agli aventi diritto, e che questo procedimento non ammette alcuna deroga, neppure in favore dei proprietari delle aree, i quali hanno solo il diritto a assere preferiti in sede di assegnazione dei lotti, diritto che, peraltro neppure si estende alle imprese di costruzione (qual e' la ricorrente), che pure possono concorrere all'assegnazione. Pertanto, la mancata espropriazione delle aree impedisce di procedere alla loro assegnazione agli eventi titolo, nel contempo precludendo il raggiungimento dello scopo cui il legislatore ha preordinato la disciplina dell'edilizia residenziale pubblica, che non e' solo quello di incrementare l'edificazione di alloggi di tipo economico e popolare, bensi' anche di attuare tali finalita' su aree acquisite dal comune (che entreranno, in parte, nel patrimonio indisponibile dello stesso), favorevole soggetti ritenuti meritevoli di tutela. Secondo la prospettazione della ricorrente, queste argomentazioni non possono essere condivise in quanto muovono da un presupposto errato e privo di fondamento giuridico, e cioe' che il modulo procedimentale di realizzazione dei p.e.e.p. delineato dall'art. 35 (espropriazione e riassegnazione delle aree) rappresenti l'unico strumento utilizzabile nella fattispecie e non preveda succedanei o alternative, neppure in presenza di situazioni di fatto del tutto peculiari, quale e' quella all'esame, in cui la ricorrente e' proprietaria di pressoche' tutti i fondi ricompresi nel p.e.e.p. medesimo. La ricorrente, nell'illustrare le proprie difese, prende le mosse dalla considerazione che, anche alla luce delle piu' recenti innovazioni legislative, la p.a. per perseguire le finalita' di cura ottimale del pubblico interesse, puo' utilizzare una molteplicita' di strumenti, sia di diritto pubblico che di diritto privato, che appaiono del tutto equivalenti e fungibili purche' capaci di realizzare al medesimo grado gli interessi di cui la stessa e' attributaria. Non solo, ma risulterebbe sicuramente piu' rispondente al criterio costituzionale di buona amministrazione, di cui all'art. 97, utilizzare moduli privatistici, quando i destinatari dei provvedimenti sono disponibili ad accordarsi, riservando l'imperativita' del provvedimento ai soli casi in cui sia necessario imporre la volonta' dell'Amministrazione, cioe' quando il pubblico interesse vada perseguito contro la volonta' dei destinatari degli atti. Il momento di sintesi di questa evoluzione si rinviene nell'art. 11 della legge n. 241/90, che ha dato veste normativa generale ad un principio ampiamente acquisito in sede dottrinale e consolidato nella prassi, secondo cui le scelte discrezionali dell'amministrazione non debbono necessariamente essere unilaterali, ma ben possono risultare affinate e conformate dagli apporti partecipativi, dei privati che presentino osservazioni e proposte nel luogo giuridico deputato al maturare delle scelte stesse, e cioe' nel procedimento. E', peraltro, di comune esperienze che l'Amministrazione, allorche' intenda acquisire aree per necessita' afferenti ad un qualsiasi pubblico interesse, puo' indifferentemente, usare lo strumento pubblicistico dell'espropriazione ovvero la propria capacita' di diritto privato e porre in essere un contratto di compravendita (anche conseguente ad accordo bonario, a procedimento espropriativo gia' aperto). Pertanto, se ora, la legge consente sia che i privati possano partecipare all'attivita' discrezionale della pubblica amministrazione fino al punto contribuire a "determinare il contenuto discrezionale dell'atto", sia la totale fungibilita', purche' il pubblico interesse sia raggiunto, di strumenti di natura pubblicistica e privatistica, si deve necessariamente concludere che il comune, per dare esecuzione al p.e.e.p., non ha piu' la sola via obbligata dell'espropriazione generalizzata, ben potendo perseguire il medesimo scopo con altri strumenti che l'ordinamento pone a disposizione: in particolare, con convenzione o accordo. Ne' va dimenticato che le norme che regolano le procedure afferenti ai p.e.e.p., sono di gran lunga antecedenti alla legge n. 241/90, ai cui nuovi principi devono essere raccordate. Quanto, poi, alla finalita' di pubblico interesse che si intende perseguire coi p.e.e.p., l'istante fa presente che essa e' principalmente costituita dall'immettere sul mercato alloggi di determinate tipologie da cedere a prezzi calmierati ai cittadini meno abbienti, non certo quella di acquisire aree da distribuire successivamente ai terzi e neppure di incrementare una sorta di manomorta comunale. Se, quindi, le finalita' sono quelle evidenziate, appare giuridicamente indifferente che esse vengano raggiunte con l'espropriazione piuttosto che con la convenzione. L'art. 35, in definitiva, letto evolutivamente o in combinato disposto con l'art. 11 della legge n. 241/90, non imporrebbe (o, quantomeno, non imporrebbe piu') l'obbligo di procedere a generalizzata espropriazione delle aree p.e.e.p., bensi' identificherebbe uno dei possibili strumenti, da utilizzare solo quando non vi sia volonta' collaborativa da parte dei privati, in altre parole quando esso appaia come l'unico strumento capace di raggiungere lo scopo. Nel caso di specie, invece, l'espropriazione non appare affatto necessaria, posto che la ricorrente - proprietaria della maggior parte delle aree del comparto - e' ben disponibile ad un accordo per realizzare essa stessa, nel piu' rigoroso rispetto dei requisiti di legge, quanto previsto dal p.e.e.p. Siffatto modo di operare appare ben piu' snello ed economico dell'espropriazione e perfettamente funzionale al raggiungimento del pubblico interesse. Non e', quindi, chiaro per quale motivo non si possa addivenire all'accordo ex art. 11 della legge n. 241/90, se tutte le condizioni previste dalla legge vengono comunque rispettate. Infatti, esiste un p.e.e.p. regolarmente approvato che funzionalizza le aree al pubblico interesse, e la convezione tiene conto di tutte le prescrizioni del caso, quanto alla tipologia degli alloggi e ai prezzi sia di locazione che di vendita. Inoltre, gli unici "terzi" i cui interessi debbono essere salvaguardati sono i destinatari finali degli alloggi (che risultano dalla convenzione perfettamente tutelati), non certo i titolari delle imprese di costruzione potenzialmente interessati all'assegnazione delle aree. L'Amministrazione, costituita, puntualmente controdeduce nel merito del ricorso, concludendo per la sua reiezione siccome infondato. Premesso l'esame delle tipologie di accordo disciplinate dalla legge, la resistente fa presente che, nella specie, e' stato posto in essere un "accordo sostitutivo" che, a tenore della legge n. 241/90 e' consentito solo nei casi espressamente previsti dalle vigenti disposizioni. In tema di p.e.e.p., nessuna norma autorizza ad addivenire a tale tipo di accordi, non solo, ma la convenzione appare assolutamente incompatibile con la disciplina della legge n. 865/71 e con la corretta cura dell'interesse pubblico che vi e' sotteso. Infatti, l'art. 35 disciplina in modo preciso l'assetto proprietario delle aree che deve risultare dall'esecuzione del p.e.e.p., che risponde allo scopo di favorire "l'accesso del risparmio popolare alla proprieta' dell'abitazione", laddove l'accordo stipulato frusta tale finalita' essendo volto in via primaria a conservare la proprieta' dei beni in capo alla ricorrente. Inoltre, e' stata un'espressa scelta del legislatore quella di imporre l'espropriazione delle aree escludendo l'assentimento del proprietario richiedente, originariamente previsto dall'art. 10 della legge n. 167/62. Da ultimo, l'espropriazione e' modello necessario proprio in funzione del particolare regime di circolazione giuridica delle aree: infatti solo se esse entrano a far parte del patrimonio disponibile del comune, sulle stesse puo' essere costituito il previsto diritto di superficie in favore dei privati. D i r i t t o 1. - Il problema sottoposto all'esame del Collegio riguarda la possibilita' di alternative procedimentali alla disciplina della necessaria, generalizzata, espropriazione di cui all'art. 10 della legge 18 aprile 1962 ( come sostituito dall'art. 35 della legge 22 ottobre 1971 n. 865) sia considerato ex-se, sia valutato alla luce delle soppravvenienze normative e, in specie, dell'art. 11 della legge 7 agosto 1990 n. 241, che ha reso generale la facota' della p.a. di porre in essere accordi (in fase procedimentale) con i privati "al fine di determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale ... ovvero in sostituzione di questo". 2. - Preliminarmente merita esaminare, sia pure brevemente, le disposizioni in materia di edilizia economica e popolare rilevanti in questo giudizio, e il ruolo che le norme assegnano ai comuni. La legge n.167/62, all'art. 1, prevede che alcuni comuni (con popolazione superiore a 50.000 abitanti o che siano capoluoghi di provincia) "sono tenuti" alla formazione di un apposito piano urbanistico delle zone "da destinare alla costruzione di alloggi di carattere economico o popolare, nonche' delle opere e servizi complementari, ivi comprese le aree a verde pubblico", "laddove "tutti gli altri comuni" ne hanno facolta', ma non obbligo. La legge descrive poi i contenuti del piano, le modalita' di approvazione e la durata (art. 9: decennale, prorogabile, per giustificati motivi, di un biennio), prevedendo, anche, che essa approvazione equivalga a dichiarazione di indifferibilita' ed urgenza di tutte le opere. Il quinto comma dall'art. 9 stabilisce che le aree comprese nel piano "rimangono soggette, durante il periodo di efficacia del piano stesso, ad espropriazione" per i fini indicati dalla legge, mentre il successivo art. 10 prescrive che "i comuni possono riservarsi l'acquisizione, anche mediante esproprio fino ad un massimo del 50% delle aree comprese nel piano, e sono autorizzati a cederne il diritto di superficie o a rivenderle, previa urbanizzazione e fatti salvi i diritti dei proprietari a norma del successivo art. 16 ad enti o privati che si impegnino a realizzare la costruzione di case economiche o popolari". A sua volta, l'art. 16, primo comma, nella sua originaria formulazione (sostanzialmente non modificata dall'art. 2 della legge 21 luglio 1965 n. 904) prevedeva che "i proprietari delle aree comprese nei piani possono ... presentare domanda al sindaco di costruire direttamente sulle aree stesse fabbricati aventi caratteristiche di abitazione di tipo economico o popolare". Nella sua impostazione originaria, quindi, la legge espressamente prevedeva che l'esecuzione del p.e.e.p. (cioe' il perseguimento delle finalita' che la legge a detto strumento assegna) potesse. del tutto indifferentemente. essere raggiunta attraverso l'attivita' del comune (che aveva la facolta', ma non l'obbligo, di procedere all'espropriazione delle aree), ovvero dei proprietari. Va da se' che per garantire il "coordinato utilizzo" delle aree medesime e il raggiungimento degli scopi cui il piano risultava funzionalizzato, il comune, nell'assentire l'edificazione ad opera dei privati proprietari, imponeva la stipula di una convenzione che contenesse tutti gli obblighi imposti dalla legge (artt. 16, quarto e quinto comma, e 18, quarto comma). Quest'impianto viene profondamente rimaneggiato con la legge 22 ottobre 1971 n. 865, che introduce nuovi istituti, quali la concessione a tempo determinato della superficie delle aree e il particolare trattamento di favore per le societa' cooperative a proprieta' indivisa, oltre a nuovi criteri per la determinazione dell'indennita' di espropriazione e la ristrutturazione degli organi di edilizia pubblica. Per quanto qui rileva, va segnalato che l'art. 35 della legge n. 865/71 sostituisce in toto il vecchio art. 10 della legge n. 167/62, innovandone i contenuti in modo sostanziale: infatti prevede (principio da intendersi come generale, in tema di edilizia economica o popolare) l'espropriazione da parte del comune (o consorzio di comuni) di tutte le aree comprese nel piano e il loro trasferimento (art. 35, secondo comma) al patrimonio indisponibile dell'ente. Una volta acquisita la totalita' delle aree, il comune provvedera' a concedere a tempo indeterminato a enti pubblici quelle necessarie per la realizzazione di impianti e servizi pubblici, a costituire il diritto di superficie (per un tempo non inferiore a 60, ne' superiore a 99, anni) per quelle ove realizzeranno gli alloggi (di preferenza) gli enti pubblici istituzionalmente operanti nel settore e le cooperative edilizie a proprieta' indivisa; a cedere in proprieta' una quota di aree (pari a non piu' del 40, e non meno del 20%, della totalita') a cooperative edilizie o singoli, con preferenza per i proprietari espropriati, a condizione che gli stessi (nonche' i soci delle cooperative) abbiano i requisiti previsti dalle vigenti disposizioni per l'assegnazione di alloggi economici e popolari. Anche in questo caso, e' prevista la stipula di apposita convenzione a garanzia del rispetto dei requisiti e dei presupposti, nonche' degli obblighi connessi al godimento del bene in proprieta' piena, quale, ad esempio, il divieto di alienazione per 10 anni. 3. - Come si evince da quanto brevemente esposto, nel sistema delineato dalla legge n. 865/71, non vi e' piu' spazio alcuno per l'esecuzione diretta del piano da parte dei proprietari. Infatti, nel nuovo modello, caratterizzato dalla generalita' dell'espropriazione, l'unico modo in cui i proprietari (espropriati) possono "rientrare in gioco" consiste nella possibilita' di partecipare all'assegnazione delle aree in proprieta', purche' essi possiedano i requisiti per l'assegnazione di alloggi economici e popolari. E che questo cambiamento sia espressione del preciso intento del legislatore di avocare totalmente alla mano pubblica la realizzazione dei p.e.e.p. e' reso ulteriormente palese dall'art. 39 della legge, il quale abroga in modo espresso l'art. 16 della legge n. 167/62 che consentiva l'esecuzione diretta da parte dei proprietari. Deve, pertanto, concludersi che il procedimento (di natura sicuramente speciale) di realizzazione dei p.e.e.p. conosce una sola modalita' esecutiva: l'espropriazione generalizzata delle aree, con successiva riassegnazione delle stesse parte in diritto di superficie, parte (col limite massimo del 40%) in proprieta' piena. Non appare, conseguentemente, ammissibile che i proprietari (ancorche' si tratti di un solo soggetto, detentore della maggior parte dei fondi ricompresi nel p.e.e.p.) realizzino direttamente il piano mediante convenzione col comune, conservando la proprieta' dei terreni, e prescidendo totalmente dalla fase pubblicistica dell'espropriazione degli stessi e dalla loro afferenza al patrimonio indisponibile dell'Ente. Di conseguenza, non prevedendo, la legge, siffatta possibilita', ma, al contrario, un inico modulo procedimentale caratterizzato dalla generalita' dell'espropriazione delle aree p.e.e.p., il lamentato vizio di violazione, ad opera dell'ordinanza del c.rc. dell'art. 35 della legge 22 ottobre 1971 n. 865 non sussiste. 4. - Parte istante solleva due ulteriori questioni, che meritano di essere attentamente disaminate: se la legge 22 ottobre 1971 n. 865 sia sensibile ai principi (generali) in tema di procedimento posti dalla sopravvenuta legge 7 agosto 1990 n. 241, di talche' la convenzione coi proprietari, espressamente espunta dall'ordinamento con l'art. 35 della legge n. 865/71, possa esservi fatta rientrare tramite l'art. 11; e se l'art. 11 legittimi qualsiasi tipo di convenzione tra privati e amministrazione, anche prescindendo dal procedimento in cui essi accordi vanno a inserirsi. In altre parole: se si possa (purche' sia raggiunto lo scopo voluto dalla legge nell'attribuire i relativi poteri all'Amministrazione), tramite l'accordo, totalmente "baipassare" il procedimento espressamente deputato a conseguire quei risultati. 4a. - Quanto al primo aspetto, la soluzione e' semplice posto che ci viene dal dettato normativo stesso e dai principi generali in tema di successione delle leggi nel tempo. La legge 7 agosto 1990 n. 241 e' legge generale sul procedimento amministrativo, tale cioe' che le garanzie in essa contenute debbono ritenersi applicabili ad ogni tipo di procedimento disciplinato dal nostro ordinamento. Ne consegue che, se anche le disposizioni che regolano una determinata fattispecie non prevedono gli istituti di cui alle nuove disposizioni, essi debbono intendersi immediatamente operativi, per la sola circostanza, appunto, del carattere di generalita' della legge n. 241/1990, i cui principi ("desumibili dalle disposizioni in essa contenute", art. 29) costituiscono "principi generali dell'ordinamento giuridico". Tuttavia la legge n. 241/1990 e' pur sempre legge ordinaria, che segue i criteri applicativi ed ermeneutici delle "preleggi", in base ai quali la legge generale successiva non abroga quelle speciali previgenti. Sul punto, va ancora precisato che non solo la legge n. 241/1990, non contiene alcuna abrogazione espressa di norme previgenti, ma, al contrario, l'art. 1 dispone che "l'attivita' amministrativa ... e' retta da criteri di economicita', di efficacia e di pubblicita' secondo le modalita' previste dalla presente legge e dalle altre disposizioni che disciplinano singoli procedimenti", con cio' facendo salve norme difformi dalla disciplina generale, se giustificate dalla specialita' della materia. Nel caso all'esame, e' chiaro che il procedimento di approvazione ed esecuzione dei p.e.e.p., in ragione della materia che disciplina, e' sicuramente da ritenersi speciale, e come tale, impermeabile alle disposizioni della legge generale sul procedimento. Quanto esposto basterebbe da solo a giustificare la non applicabilita' dell'art. 11 al caso all'esame, ma vi e' anche una altro aspetto da considerare. La disposizione sulla generalita' dell'accordo come modello di formazione della volota' dell'Amministrazione e' contenuta, per l'appunto, nell'art. 11, norma del Capo III della legge intitolata "partecipazione al procedimento amministrativo". Le disposizioni sulla partecipazione di cui agli articoli da 7 a 13, sono, dalla legge stessa (art. 13), ritenute non applicabili "nei confronti dell'attivita' della pubblica amministrazione diretta alla emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione, per i quali restano ferme le particolari norme che ne regolano la formazione". Dal che consegue che i procedimenti di pianificazione/programmazione sono espressamente qualificati "speciali" e, come tali, insensibili, in ragione della peculiarita' degli istituti che disciplinano e degli interessi che perseguono, alle nuove regole dettate, in tema di partecipazione, dalla legge generale sul procedimento. Il disegno organizzativo della legge n. 865/1971 prevede, infatti, come necessaria l'afferenza al patrimonio indisponibile del comune delle aree p.e.e.p. non cedute in proprieta', e non gia' che la totalita' delle stesse resti ai precedenti proprietari, per di piu' (come nel caso di specie) privi dei requisiti per l'assegnazione degli alloggi. Sul primo punto si deve, quindi, concludere nel senso che il procedimento di realizzazione del p.e.e.p., di cui alla legge n. 865/1971, per la specialita' della materia oltre che per le peculiarita' dei fini che persegue, e' del tutto rigido e non ammette, in ossequio ai principi posti dal sopravvenuto art. 11 della legge n. 241/1990, quale modello alternativo alla generalizzata espropriazione dei fondi, la realizzazione del piano mediante convenzione coi privati proprietari. 4b. - La ricorrente Societa', peraltro, propone anche una diversa interpretazione della fattispecie astratta, e cioe' che la possibilita' di perseguire acccordi vada considerata come una facolta' dell'Ente, sempre esercitabile (del tutto svincolata, nel caso di cui ci si occupa, dal procedimento che disciplina l'esecuzione dei p.e.e.p.). In altre parole, la deducente afferma che l'accordo, costituendo modello "privatistico" generale, alternativo ai normali canoni pubblicistici, consente senza meno all'Amministrazione di realizzare gli scopi indicati dalle norme prescindendo totalmente dal procedimento in cui esso accordo viene inserito o al quale va a collegarsi. E poiche', nella specie, l'unico fine che la norma esige sia perseguito e' quello della realizzazione di alloggi a prezzi calmierati da destinare alle fasce sociali meno abbienti, e tale scopo viene, con la convenzione, in toto raggiunto, non vi e' motivo di non ritenere legittima l'attivita' compiuta dal comune. O meglio, la Societa' ricorrente ipotizza che il modulo privatistico, oltre ad essere sempre utilizzabile, in ragione della sua flessibilita' vada preferito ogni qual volta il privato (destinatario dell'attivita') manifesti la disponibilita' di addivenire ad un accordo; riservando, per contro, l'imperativita' del provvedimento ai soli casi in cui la volonta' dell'Amministrazione debba essere imposta contro quella del privato. Anche quest'argomentazione, pur abile e affascinante, non puo' trovare accoglimento. E, invero, basta esaminare attentamente l'art. 11 per convincersi che non e' applicabile al caso di specie, neppure aderendo alla tesi prospettata che la sua ratio consista nel riconoscimento della piena alternativa tra moduli privatistici e pubblicistici nel perseguimento dei fini dell'Amministrazione. Invero, l'art. 11 prevede due distinti dipi di accordi: quelli che vengono conclusi "al fine di determinare il contenuto discrezionale dell'atto" (accordi infraprocedimentali, che non riguardano il caso all'oggetto), e quelli "sostitutivi del provvedimento". Quanto a questi ultimi, l'art. 11 espressamente dispone che essi possano essere conclusi solo "nei casi previsti dalla legge". Cio' sta' a significare due cose: da un lato che non eiste, in linea generale, totale alternativita', nel perseguimento dei pubblici interessi, tra il modulo pubblicistico e quello privatistico, tant'e' che l'accordo che tien luogo all'atto e' ammesso solo nei casi in cui la legge lo consenta; secondariamente che la fattibilita' dell'accordo sostitutivo costituisce un dato di stretto diritto positivo. Nella specie, il procedimento di attuazione dei p.e.e.p. non prevede affatto l'accordo quale alternativa al provvedimento espropriativo, ma solo la convenzione come "appendice" alla concessione e cessione delle aree (rispettivamente in diritto di superficie e in proprieta' piena), con contenuto che, peraltro, viene "determinato" dal consiglio comunale in sede di assunzione delle relative delibere. In assenza di una norma ad hoc, pertanto, non puo' ritenersi mai ammissibile, in subiecta materia, l'accordo sostitutivo. Che, nell'ipotesi all'esame, le parti avessero inteso realizzare proprio un accordo sostitutivo e' indubitabile: infatti esso ha la funzione di porsi come alterantiva di carattere privatistico alla realizzazione del p.e.e.p., in luogo del tradizionale (e unico) modello legale caratterizzato dalla generalita' dell'espressione delle aree. La conclusione cui si dovrebbe pervenire, a questo punto, e' quella della reiezione del ricorso, poiche' i due motivi su cui si articola (violazione dell'art. 35 della legge n. 865/1971, e falsa applicazione dell'art. 11 della legge n. 241/1990) non appaiono fondati. 5. - Tuttavia, il Collegio ritiene che in ragione anche di altre, diverse, sopravvenienze normative (che verranno appresso illustrate), nonche' di un emergente mutamento di orientamento in merito all'opportunita' e convenienza del formarsi di una sorta di manomorta comunale (quali sono le aree p.e.e.p.), sia seriamente dubitabile l'attuale conformita' dell'art. 35 della legge n. 876/1971 alla Costituzione, nella parte in cui non consente ai privati proprietari di dar esecuzione essi stessi alle finalita' del piano per l'edilizia economica e popolare, come, peraltro, originariamente previsto dalla legge n. 167/1962. Due sono le principali linee di tendenza che vanno esaminate. 5a. - La prima e' quella che mira, in piena adesione ai principi di imparzialita' e buon andamento di cui all'art. 97 della Costituzione, alla semplificazione ed all'economicita' dei procedimenti amministrativi, la cui principale espressione si ha proprio nei "principi generali dell'ordinamento giuridico" di cui alla legge n. 241/1990. Tra i principi atti a garantire il buon andamento dell'Amministrazione vanno, senza meno, annoverati anche quelli della massima collaborazioen coi privati (i quali possono, come si e' visto, contribuire a determinare il contenuto discrezionale degli atti) e della piena fungibilita' dello strumento autoritativo con quello concordato, laddove il fine (ovvero l'assetto degli interessi) voluto dalla legge sia raggiunto. (Per un'esplicita enunciazione, cfr.: Cons. Giust. Amm. Reg. Sic. n. 336 del 4 novembre 1995). Per quanto riguarda, in particolare, i rapporti connessi alla pianificazione e programmazione urbanistica e alla loro realizzazione, va osservato che se la pianificazione generale e' sempre rimessa alla mano pubblica, in ragione della rilevanza degli interessi che vi sono sottesi, non altrettanto puo' dirsi per quella esecutiva e per la fase di concreta attuazione, che ben possono essere rimesse anche ai privati (su questo punto, cfr.: Tar Veneto, I sez. n. 513 del 30 marzo 1996). Allo stesso modo, in tema di programmi di recupero urbano (di cui all'art. 11, comma 5, del d.-l. 5 ottobre 1993 n. 398, convertito, con modificazioni, in legge 4 dicembre 1993 n. 493), si e' espressamente previsto che i comuni promuovono la formazione (e pervengono all'approvazione) dei programmi di recupero urbano proposti da "soggetti pubblici o privati" (art. 1.3 della Direttiva emessa con d.m. 1 dicembre 1994). Non diversamente in D.M.LL.PP. 21 dicembre 1994, in tema di finanziamenti per i programmmi di riqualificazione urbana, di cui alla legge 17 febbraio 1992 n. 179, all'art. 5 dell'All. 1, stabilisce che taluni degli interventi, e, in particolare, la "realizzazione o ampliamento dei fabbricati residenziali e non" possono essere "pubblici o privati a seconda del regime di proprieta' attribuito all'immobile", e che detti interventi, se privati, possono essere effettuati (art. 11) direttamente dai proprietari degli immboli "singoli o associati" e, ancorche' pubblici, possono essere realizzati (art. 8 lett. g) e h)) anche per "assunzione diretta, da parte del soggetto privato". Significative sono, poi, le disposizioni di cui all'art. 3, comma 4, che stabilisce che le richieste di finanziamento, che possono provenire unicamente dai comuni interessati, debbono contenere gli "atti d'obbligo" o "le convenzioni" sottoscritti dai soggetti privati che partecipano al programma, coi contenuti di cui all'art. 7, nonche' dell'art. 6 comma 3, ove si precisa che il comune promuove e valuta, con procedure autonomamente determinate (quali "accordi diretti, invito pubblico, confronto concorrenziale"), le proposte che pervengono dai soggetti interessati alla realizzazione del programma "in relazione al perseguimento degli obiettivi". Da quanto esposto puo' desumersi che l'intero sistema dell'esecuzione della pianificazione urbanistica va (o, per meglio dire, ritorna) verso un modello caratterizzato dall'indifferenza del soggetto che opera, purche' le scelte di fondo e il controllo dell'intera attivita' siano comunque posti in essere dal soggetto pubblico. 5b. - Il secondo aspetto riguarda l'assetto delle proprieta' risultante dalla realizzazione dei p.e.e.p. Non vi e' dubbio che, in origine, la ratio della legge n. 865/1971 fosse proprio di far entrare le aree non trasferite in proprieta' ai terzi nel patrimonio indisponibile del comune. Tuttavia se un tale fine appariva essenziale e degno di essere perseguito inmodo assoluto nel 1971, lo stesso non puo' dirsi oggi; tant'e' che con la legge 28 dicembre 1995 n. 549 (art. 3, comma 75) si e' dato il via ad un programma di dismissione, da parte dei comuni, delle aree p.e.e.p. concesse in diritto di superficie ai sensi dell'art. 35. Cio' significa, inequivocabilmente, che una delle finalita' di maggior momento che avevano ispirato la riforma del sistema dell'edilizia economica e popolare del 1971, ha perso ogni attualita'. Alla stregua di quanto esposto l'obbligo, sancito dal ricordato art. 35, di dare attuazione al p.e.e.p. solo tramite espropriazione generalizzata delle aree, senza la possibilita' di consentire, mediante convenzione o accordo, ai proprietari interessati di eseguire direttamente le opere previste (pur nel rispetto dei prescritti presupposti e delle finalita' pubbliche) appare in contrasto sia con il principio di buon andamento, di cui all'art. 97 della Costituzione, cosi' come reso esplicito dalla legge n. 241/1990, sia con gli artt. 41 e 42. In merito a questi ultimi, si osserva che il principio di funzionalizz azione del diritto di proprieta', consta della possibilita' di imposizione di limiti, che giungono fino all'ablazione, "allo scopo di assicurarne la funzionale sociale e di renderla accessbile a tutti". Peraltro, il fatto che la proprieta' privata sia "riconosciuta e garantita" implica necessariamente che l'espropriazione vada limitata a quei casi in cui non appaia possibile ottenere il risultato di "assicurarne la funzione sociale" semplicemente ponendo limiti di minore entita'. Il che, nel caso di specie non e': infatti, consentendo che (nel rispetto delle finalita' previste) i proprietari stessi realizzino le prescrizioni del p.e.e.p. si perviene ad un indubbio risparmio in termini economici, di tempo e di attivita' procedimentale, nel contempo non sacrificando la proprieta' privata al di la' di quanto risulta necessario per il conseguimento delle utilita' che l'Ente pubblico si prefigge di conseguire. Del pari, consentendo ai privati proprietari di dare essi stessi attuazione ai programmi di edilizia economica e popolare, sotto il controllo dell'Ente competente, si rispetta il principio di liberta' di intrapresa economica garantita dall'art. 41, conformandola "perche' possa essere indirizzata e coordinata ai fini sociali". Ad avviso del Collegio, quindi, va sollevata questione di legittimita' costituzionale dell'art. 35 della legge n. 865/1971, nella parte in cui non prevede la possibilita', per i privati proprietari, di dar esecuzione direttamente alle prescrizioni del p.e.e.p., con lo strumento dell'accordo col comune interessato, per contrasto con le disposizioni di cui agli artt. 97, 41 e 42 della Costituzione e coi principi generali che da tali norme derivano, cosi' come resi palesi anche dall'evoluzione normativa che caratterizza lo specifico settore. La questione appare rilevante, nel presente giudizio, in quanto l'applicazioe dell'art. 35, sospettato di incostituzionalita', e' determinante per la risoluzione della controversia; e non manifestamente infondata alla stregua delle osservazioni che si sono svolte in precedenza.