IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE
   Ha pronunziato la seguente ordinanza sul ricorso n. 309/96 proposto
 dalla  societa'  Anfora  S.r.l.  rappresentata  e  difesa  dagli avv.
 Vittorio Domenichelli e Franco Zambelli, con  elezioni  di  domicilio
 presso  lo  studio del secondo in Venezia - Mestre, via Cavallotti n.
 22;
   contro il comitato regionale di controllo della regione Veneto,  in
 persona del legale rappresentante pro-tempore, costituito in giudizio
 col  patrocinio  dell'Avvocatura distrettuale dello Stato di Venezia,
 presso cui e'  domiciliato  in  Venezia,  san  Marco  n.  16;  e  nei
 confronti  del  comune  di  Noventa  Padovana, in persona del sindaco
 pro-tempore, costituito;
   per l'annullamento dell'ordinanza del C.R.C., sezione di Padova  n.
 3885/6477  del  5  settembre  1995,  con  cui  e'  stata annullata la
 delibera del consiglio comunale di  Noventa  Padovana  n.  14  del  2
 maggio 1995;
   Visto  il  ricorso  notificato il 24 e 26 gennaio 1996 e depositato
 presso la segreteria il 30 gennaio 1996, con i relativi allegati;
   Visto  l'atto  di  costituzione  in  giudizio  dell'Amministrazione
 regionale resistente;
   Visti gli atti tutti della causa;
   Uditi   all'udienza   pubblica  del  4  luglio  1996  (relatore  il
 consigliere Depiero) gli avv. Domenichelli, per  la    ricorrente,  e
 Brunetti per l'Amministrazione;
   Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:
                               F a t t o
   La  societa'    ricorrente rappresenta di essere proprietaria della
 quasi totalita' delle aree ricomprese  nel  p.e.e.p.  del  comune  di
 Noventa  Padovana, approvato con delibera della giunta provinciale n.
 2556 del 17 novembre 1988, non ancora attuato per mancanza dei  fondi
 necessari  per  l'espropriazione  e  la  realizzazione delle opere di
 urbanizzazione.
   La  societa'  di  fatto impossibilitata a utilizzare i fondi di sua
 proprieta' prononeva al comune di attuare essa stessa  le  previsioni
 del  piano,  cioe'  eseguire  le necessarie opere di urbanizzazione e
 realizzare i fabbricati, a condizioni da concordare  tramite  stipula
 di  un'apposita convenzione che stabilisse le modalita' costruttive e
 tipologiche  degli  edifici,  i  criteri  per  la  determinazione   e
 revisione  dei  canoni  di  locazione  e  il prezzo di cessione degli
 alloggi.
   Con deliberazione n. 14 del 2 maggio 1995 il  comune  aderiva  alla
 proposta e approvava lo schema di  convenzione.
   Il  C.R.C.  del  Veneto, sezione di Padova, dapprima interloquiva e
 poi   definitivamente   annullava   il   provvedimento,   ritenendolo
 contrastante  con  l'art  10  della  legge n. 167/62 (come modificato
 dall'art. 35 della   legge n. 865/71) che  impone  una  generalizzata
 espropriazione   delle  aree  destinate  all'edilizia  economica    e
 popolare.
   Avverso detto annullamento agisce la ricorrente societa'  "Anfora",
 deducendone, con un unico articolato motivo, l'illegittimita' sotto i
 seguenti  profili:  erronea  e  falsa applicazione dell'art. 10 della
 legge 18 aprile 1992, n. 167  (come  modificato  dall'art.  35  della
 legge 22 ottobre  1971, n. 865), anche in relazione all'art. 11 della
  legge 7 agosto 1990, n. 241.
   Il  Comitato di controllo, nella diffusa motivazione dell'ordinanza
 di  annullamento,  rileva  che  l'art.  35,  impone  ai   comuni   la
 generalizzata epropriazione dei fondi compresi nei p.e.e.p. e la loro
 successiva   assegnazione   agli   aventi   diritto,   e  che  questo
 procedimento  non  ammette  alcuna  deroga,  neppure  in  favore  dei
 proprietari  delle  aree,  i  quali  hanno  solo  il diritto a assere
 preferiti in sede di assegnazione dei lotti,  diritto  che,  peraltro
 neppure   si   estende  alle  imprese  di  costruzione  (qual  e'  la
 ricorrente), che pure possono concorrere
  all'assegnazione.
   Pertanto,  la  mancata  espropriazione  delle  aree  impedisce   di
 procedere  alla  loro  assegnazione  agli eventi titolo, nel contempo
 precludendo il raggiungimento  dello  scopo  cui  il  legislatore  ha
 preordinato  la  disciplina  dell'edilizia residenziale pubblica, che
 non e' solo quello di incrementare l'edificazione di alloggi di  tipo
 economico  e popolare, bensi' anche di attuare tali finalita' su aree
 acquisite dal  comune  (che  entreranno,  in  parte,  nel  patrimonio
 indisponibile  dello stesso), favorevole soggetti ritenuti meritevoli
 di tutela.
   Secondo la prospettazione della ricorrente,  queste  argomentazioni
 non  possono  essere  condivise  in  quanto muovono da un presupposto
 errato e privo  di  fondamento  giuridico,  e  cioe'  che  il  modulo
 procedimentale  di  realizzazione dei p.e.e.p. delineato dall'art. 35
 (espropriazione e  riassegnazione  delle  aree)  rappresenti  l'unico
 strumento  utilizzabile  nella fattispecie e non preveda succedanei o
 alternative, neppure in presenza di situazioni  di  fatto  del  tutto
 peculiari,  quale  e'  quella  all'esame,  in  cui  la  ricorrente e'
 proprietaria di pressoche' tutti  i  fondi  ricompresi  nel  p.e.e.p.
 medesimo.
   La  ricorrente,  nell'illustrare le proprie difese, prende le mosse
 dalla  considerazione  che,  anche  alla  luce  delle  piu'   recenti
 innovazioni  legislative, la p.a. per perseguire le finalita' di cura
 ottimale del pubblico interesse, puo' utilizzare una molteplicita' di
 strumenti, sia di  diritto  pubblico  che  di  diritto  privato,  che
 appaiono   del  tutto  equivalenti  e  fungibili  purche'  capaci  di
 realizzare al medesimo grado  gli  interessi  di  cui  la  stessa  e'
 attributaria.
   Non  solo, ma risulterebbe sicuramente piu' rispondente al criterio
 costituzionale  di  buona  amministrazione,  di  cui   all'art.   97,
 utilizzare    moduli   privatistici,   quando   i   destinatari   dei
 provvedimenti   sono   disponibili    ad    accordarsi,    riservando
 l'imperativita'  del provvedimento ai soli casi in cui sia necessario
 imporre la volonta' dell'Amministrazione, cioe'  quando  il  pubblico
 interesse  vada  perseguito  contro la volonta' dei destinatari degli
 atti.
   Il momento di sintesi di questa evoluzione  si  rinviene  nell'art.
 11  della legge n. 241/90, che ha dato veste normativa generale ad un
 principio ampiamente acquisito in sede dottrinale e consolidato nella
 prassi, secondo cui le scelte discrezionali dell'amministrazione  non
 debbono  necessariamente essere unilaterali, ma ben possono risultare
 affinate e conformate dagli apporti partecipativi,  dei  privati  che
 presentino  osservazioni  e  proposte nel luogo giuridico deputato al
 maturare delle scelte stesse, e cioe' nel procedimento.
   E', peraltro, di comune esperienze che l'Amministrazione, allorche'
 intenda acquisire aree  per  necessita'  afferenti  ad  un  qualsiasi
 pubblico   interesse,  puo'  indifferentemente,  usare  lo  strumento
 pubblicistico dell'espropriazione  ovvero  la  propria  capacita'  di
 diritto  privato  e  porre  in  essere  un contratto di compravendita
 (anche conseguente ad accordo bonario, a  procedimento  espropriativo
 gia' aperto).
   Pertanto,  se  ora,  la  legge  consente  sia che i privati possano
 partecipare    all'attivita'     discrezionale     della     pubblica
 amministrazione fino al punto contribuire a "determinare il contenuto
 discrezionale  dell'atto",  sia  la  totale  fungibilita', purche' il
 pubblico  interesse   sia   raggiunto,   di   strumenti   di   natura
 pubblicistica  e privatistica, si deve necessariamente concludere che
 il comune, per dare esecuzione al p.e.e.p., non ha piu' la  sola  via
 obbligata  dell'espropriazione  generalizzata, ben potendo perseguire
 il medesimo scopo  con  altri  strumenti  che  l'ordinamento  pone  a
 disposizione: in particolare, con convenzione o accordo.
   Ne'  va  dimenticato  che  le  norme    che  regolano  le procedure
 afferenti ai p.e.e.p., sono di gran lunga antecedenti alla  legge  n.
 241/90, ai cui nuovi principi devono essere raccordate.
   Quanto,  poi,  alla  finalita' di pubblico interesse che si intende
 perseguire  coi  p.e.e.p.,  l'istante  fa  presente   che   essa   e'
 principalmente  costituita  dall'immettere  sul  mercato  alloggi  di
 determinate tipologie da cedere a prezzi calmierati ai cittadini meno
 abbienti,  non  certo  quella  di  acquisire  aree   da   distribuire
 successivamente  ai  terzi  e  neppure  di  incrementare una sorta di
 manomorta comunale.
   Se,  quindi,  le  finalita'   sono   quelle   evidenziate,   appare
 giuridicamente   indifferente   che   esse  vengano  raggiunte    con
 l'espropriazione piuttosto che con la  convenzione.
   L'art.  35,  in  definitiva,  letto  evolutivamente  o in combinato
 disposto con l'art. 11 della legge  n.  241/90,  non  imporrebbe  (o,
 quantomeno,   non   imporrebbe   piu')   l'obbligo   di  procedere  a
 generalizzata   espropriazione   delle    aree    p.e.e.p.,    bensi'
 identificherebbe  uno  dei  possibili  strumenti,  da utilizzare solo
 quando non vi sia volonta' collaborativa da  parte  dei  privati,  in
 altre  parole  quando  esso  appaia  come l'unico strumento capace di
 raggiungere lo scopo.
   Nel caso di specie, invece,  l'espropriazione  non  appare  affatto
 necessaria,  posto  che  la  ricorrente  - proprietaria della maggior
 parte delle aree del comparto - e' ben disponibile ad un accordo  per
 realizzare  essa  stessa, nel piu' rigoroso rispetto dei requisiti di
 legge, quanto previsto dal p.e.e.p.
   Siffatto modo di  operare  appare  ben  piu'  snello  ed  economico
 dell'espropriazione
  e perfettamente funzionale al raggiungimento del pubblico interesse.
   Non  e',  quindi,  chiaro  per quale motivo non si possa addivenire
 all'accordo ex art. 11 della legge n. 241/90, se tutte le  condizioni
 previste dalla legge vengono comunque rispettate.
   Infatti,    esiste   un   p.e.e.p.   regolarmente   approvato   che
 funzionalizza le aree al pubblico interesse, e  la  convezione  tiene
 conto  di tutte le prescrizioni del caso, quanto alla tipologia degli
 alloggi e ai prezzi sia di locazione che di vendita.
   Inoltre,  gli  unici  "terzi"  i  cui  interessi   debbono   essere
 salvaguardati  sono i destinatari finali degli alloggi (che risultano
 dalla convenzione perfettamente tutelati), non certo i titolari delle
 imprese di costruzione  potenzialmente  interessati  all'assegnazione
 delle aree.
   L'Amministrazione, costituita, puntualmente controdeduce nel merito
 del  ricorso, concludendo per la sua reiezione siccome infondato.
   Premesso  l'esame  delle  tipologie  di  accordo disciplinate dalla
 legge, la resistente fa presente che, nella specie, e' stato posto in
 essere un "accordo sostitutivo" che, a tenore della legge  n.  241/90
 e'  consentito  solo  nei  casi  espressamente previsti dalle vigenti
 disposizioni.
   In tema di p.e.e.p., nessuna norma autorizza ad addivenire  a  tale
 tipo  di  accordi,  non  solo, ma la convenzione appare assolutamente
 incompatibile con la disciplina  della  legge  n.  865/71  e  con  la
 corretta cura dell'interesse pubblico che vi e' sotteso.
   Infatti,   l'art.   35   disciplina   in   modo  preciso  l'assetto
 proprietario  delle  aree  che  deve  risultare  dall'esecuzione  del
 p.e.e.p.,   che  risponde  allo  scopo  di  favorire  "l'accesso  del
 risparmio  popolare   alla   proprieta'   dell'abitazione",   laddove
 l'accordo  stipulato  frusta  tale  finalita'  essendo  volto  in via
 primaria a conservare la proprieta' dei beni in capo alla ricorrente.
   Inoltre, e' stata un'espressa  scelta  del  legislatore  quella  di
 imporre  l'espropriazione  delle  aree  escludendo l'assentimento del
 proprietario richiedente, originariamente previsto dall'art. 10 della
 legge n. 167/62.
   Da  ultimo,  l'espropriazione  e'  modello  necessario  proprio  in
 funzione del particolare regime di circolazione giuridica delle aree:
 infatti  solo  se esse entrano a far parte del patrimonio disponibile
 del comune, sulle stesse puo' essere costituito il  previsto  diritto
 di superficie in favore dei privati.
                             D i r i t t o
   1.  -  Il  problema  sottoposto  all'esame del Collegio riguarda la
 possibilita' di  alternative  procedimentali  alla  disciplina  della
 necessaria,  generalizzata,  espropriazione  di cui all'art. 10 della
 legge 18 aprile 1962 ( come sostituito dall'art. 35  della  legge  22
 ottobre  1971  n.  865) sia considerato ex-se, sia valutato alla luce
 delle soppravvenienze normative e,  in  specie,  dell'art.  11  della
 legge  7  agosto  1990  n. 241, che ha reso generale la facota' della
 p.a. di porre in  essere  accordi  (in  fase  procedimentale)  con  i
 privati  "al  fine  di  determinare  il  contenuto  discrezionale del
 provvedimento finale ... ovvero in sostituzione di questo".
   2. - Preliminarmente merita  esaminare,  sia  pure  brevemente,  le
 disposizioni in materia di edilizia economica e popolare rilevanti in
 questo giudizio, e il ruolo che le norme assegnano ai comuni.
   La  legge  n.167/62,  all'art.  1,  prevede  che alcuni comuni (con
 popolazione superiore a 50.000 abitanti o  che  siano  capoluoghi  di
 provincia)  "sono  tenuti"  alla  formazione  di  un  apposito  piano
 urbanistico delle zone "da destinare alla costruzione di  alloggi  di
 carattere  economico  o  popolare,  nonche'  delle  opere  e  servizi
 complementari, ivi comprese  le  aree  a  verde  pubblico",  "laddove
 "tutti gli altri comuni" ne hanno facolta', ma non obbligo.
   La  legge  descrive  poi  i  contenuti  del  piano, le modalita' di
 approvazione  e  la  durata  (art.  9:  decennale,  prorogabile,  per
 giustificati  motivi,  di  un  biennio),  prevedendo, anche, che essa
 approvazione equivalga a dichiarazione di indifferibilita' ed urgenza
 di tutte le opere.
   Il quinto comma dall'art. 9 stabilisce che  le  aree  comprese  nel
 piano "rimangono soggette, durante il periodo  di efficacia del piano
 stesso, ad espropriazione" per i fini indicati dalla legge, mentre il
 successivo  art.  10  prescrive  che  "i  comuni  possono  riservarsi
 l'acquisizione, anche mediante esproprio fino ad un massimo  del  50%
 delle  aree  comprese  nel  piano,  e  sono  autorizzati a cederne il
 diritto di superficie o a rivenderle, previa urbanizzazione  e  fatti
 salvi  i  diritti  dei  proprietari a norma del successivo art. 16 ad
 enti o privati che si impegnino a realizzare la costruzione  di  case
 economiche o popolari".
   A   sua  volta,  l'art.  16,  primo  comma,  nella  sua  originaria
 formulazione (sostanzialmente non modificata  dall'art. 2 della legge
 21 luglio 1965 n.  904)  prevedeva  che  "i  proprietari  delle  aree
 comprese  nei  piani  possono  ...  presentare  domanda al sindaco di
 costruire  direttamente   sulle   aree   stesse   fabbricati   aventi
 caratteristiche di abitazione di tipo economico o popolare".
   Nella  sua  impostazione originaria, quindi, la legge espressamente
 prevedeva che l'esecuzione del p.e.e.p. (cioe' il perseguimento delle
 finalita' che la legge a detto strumento assegna) potesse. del  tutto
 indifferentemente. essere raggiunta attraverso l'attivita' del comune
 (che   aveva   la   facolta',   ma   non   l'obbligo,   di  procedere
 all'espropriazione delle aree), ovvero dei proprietari.
   Va da se' che per garantire il  "coordinato  utilizzo"  delle  aree
 medesime  e  il  raggiungimento  degli  scopi  cui il piano risultava
 funzionalizzato, il comune, nell'assentire  l'edificazione  ad  opera
 dei  privati  proprietari, imponeva la stipula di una convenzione che
 contenesse tutti gli obblighi imposti dalla legge  (artt. 16,  quarto
 e quinto comma, e 18, quarto comma).
   Quest'impianto  viene  profondamente  rimaneggiato  con la legge 22
 ottobre  1971  n.  865,  che  introduce  nuovi  istituti,  quali   la
 concessione  a  tempo  determinato  della  superficie delle aree e il
 particolare trattamento di  favore  per  le  societa'  cooperative  a
 proprieta'  indivisa,  oltre  a  nuovi  criteri per la determinazione
 dell'indennita' di espropriazione e la ristrutturazione degli  organi
 di  edilizia pubblica. Per quanto qui rileva, va segnalato che l'art.
 35 della legge n. 865/71 sostituisce in toto il vecchio art. 10 della
 legge n. 167/62,  innovandone    i  contenuti  in  modo  sostanziale:
 infatti  prevede  (principio  da intendersi come generale, in tema di
 edilizia economica o popolare) l'espropriazione da parte  del  comune
 (o consorzio di comuni) di tutte le aree comprese nel piano e il loro
 trasferimento  (art.  35,  secondo comma) al patrimonio indisponibile
 dell'ente.
   Una volta acquisita la totalita' delle aree, il comune  provvedera'
 a  concedere  a tempo indeterminato a enti pubblici quelle necessarie
 per la realizzazione di impianti e servizi pubblici, a costituire  il
 diritto di superficie (per un tempo non inferiore a 60, ne' superiore
 a  99, anni) per quelle ove realizzeranno gli alloggi (di preferenza)
 gli  enti  pubblici  istituzionalmente  operanti  nel  settore  e  le
 cooperative  edilizie  a  proprieta' indivisa; a cedere in proprieta'
 una quota di aree (pari a non piu' del 40, e non meno del 20%,  della
 totalita')  a  cooperative   edilizie o singoli, con preferenza per i
 proprietari espropriati, a condizione che gli stessi (nonche' i  soci
 delle  cooperative)  abbiano  i    requisiti  previsti  dalle vigenti
 disposizioni per l'assegnazione di alloggi economici e popolari.
   Anche  in  questo  caso,  e'  prevista  la  stipula   di   apposita
 convenzione  a garanzia del rispetto dei requisiti e dei presupposti,
 nonche' degli obblighi  connessi al godimento del bene in  proprieta'
 piena, quale, ad esempio, il divieto di alienazione per 10 anni.
   3.  -  Come  si  evince  da  quanto brevemente esposto, nel sistema
 delineato dalla legge n. 865/71, non vi e'  piu'  spazio  alcuno  per
 l'esecuzione diretta del piano da parte dei proprietari.
   Infatti,   nel  nuovo  modello,  caratterizzato  dalla  generalita'
 dell'espropriazione, l'unico modo in cui i proprietari  (espropriati)
 possono     "rientrare  in  gioco"  consiste  nella  possibilita'  di
 partecipare all'assegnazione delle aree in proprieta',  purche'  essi
 possiedano  i  requisiti  per  l'assegnazione  di alloggi economici e
 popolari.
   E che questo cambiamento sia espressione del  preciso  intento  del
 legislatore di avocare totalmente alla mano pubblica la realizzazione
 dei  p.e.e.p.  e' reso ulteriormente palese dall'art. 39 della legge,
 il quale abroga in modo espresso l'art. 16 della legge n. 167/62  che
 consentiva l'esecuzione diretta da parte dei proprietari.
   Deve,   pertanto,   concludersi  che  il  procedimento  (di  natura
 sicuramente speciale) di realizzazione dei p.e.e.p. conosce una  sola
 modalita'  esecutiva:  l'espropriazione generalizzata delle aree, con
 successiva  riassegnazione  delle  stesse   parte   in   diritto   di
 superficie, parte (col limite massimo del 40%) in proprieta' piena.
   Non   appare,   conseguentemente,  ammissibile  che  i  proprietari
 (ancorche' si tratti di un solo  soggetto,  detentore  della  maggior
 parte  dei  fondi ricompresi nel p.e.e.p.) realizzino direttamente il
 piano mediante convenzione col comune, conservando la proprieta'  dei
 terreni,   e   prescidendo   totalmente   dalla   fase  pubblicistica
 dell'espropriazione degli stessi e dalla loro afferenza al patrimonio
 indisponibile dell'Ente.
   Di  conseguenza,  non  prevedendo, la legge, siffatta possibilita',
 ma, al contrario, un inico modulo procedimentale caratterizzato dalla
 generalita' dell'espropriazione delle  aree  p.e.e.p.,  il  lamentato
 vizio  di violazione, ad opera dell'ordinanza del c.rc. dell'art.  35
 della legge 22 ottobre 1971 n. 865 non sussiste.
   4. - Parte istante solleva due ulteriori questioni, che meritano di
 essere attentamente disaminate: se la legge 22 ottobre 1971 n.    865
 sia  sensibile  ai  principi (generali) in tema di procedimento posti
 dalla sopravvenuta  legge  7  agosto  1990  n.  241,  di  talche'  la
 convenzione  coi  proprietari, espressamente espunta dall'ordinamento
 con l'art. 35 della legge n. 865/71, possa  esservi  fatta  rientrare
 tramite  l'art.  11;  e  se  l'art.  11 legittimi qualsiasi   tipo di
 convenzione tra privati e  amministrazione,  anche  prescindendo  dal
 procedimento in cui essi accordi vanno a inserirsi.
   In altre parole: se si possa (purche' sia raggiunto lo scopo voluto
 dalla  legge  nell'attribuire i relativi poteri all'Amministrazione),
 tramite   l'accordo,   totalmente   "baipassare"   il    procedimento
 espressamente deputato a conseguire quei risultati.
   4a.  -  Quanto al primo aspetto, la soluzione e' semplice posto che
 ci viene dal dettato normativo stesso e dai principi generali in tema
 di successione delle leggi nel tempo.
   La legge 7 agosto 1990 n. 241 e' legge  generale  sul  procedimento
 amministrativo,  tale cioe' che le garanzie in essa contenute debbono
 ritenersi applicabili ad ogni tipo di procedimento  disciplinato  dal
 nostro ordinamento.
   Ne  consegue  che,  se  anche  le  disposizioni  che  regolano  una
 determinata fattispecie non prevedono gli istituti di cui alle  nuove
 disposizioni,  essi  debbono intendersi immediatamente operativi, per
 la sola circostanza, appunto,  del  carattere  di  generalita'  della
 legge  n. 241/1990, i cui principi ("desumibili dalle disposizioni in
 essa  contenute",   art.   29)   costituiscono   "principi   generali
 dell'ordinamento giuridico".
   Tuttavia  la  legge  n. 241/1990 e' pur sempre legge ordinaria, che
 segue i criteri applicativi ed ermeneutici delle "preleggi", in  base
 ai  quali  la  legge  generale  successiva non abroga quelle speciali
 previgenti.
   Sul punto, va ancora precisato che non solo la legge  n.  241/1990,
 non  contiene alcuna abrogazione espressa di norme previgenti, ma, al
 contrario, l'art. 1 dispone che "l'attivita' amministrativa ...    e'
 retta  da  criteri  di  economicita',  di  efficacia e di pubblicita'
 secondo le modalita' previste dalla  presente  legge  e  dalle  altre
 disposizioni che disciplinano singoli procedimenti", con cio' facendo
 salve norme difformi dalla disciplina generale, se giustificate dalla
 specialita'  della  materia.    Nel  caso all'esame, e' chiaro che il
 procedimento di approvazione ed esecuzione dei p.e.e.p.,  in  ragione
 della materia che disciplina, e' sicuramente da ritenersi speciale, e
 come  tale,  impermeabile  alle disposizioni della legge generale sul
 procedimento.  Quanto esposto basterebbe da solo  a  giustificare  la
 non applicabilita' dell'art. 11 al caso all'esame, ma vi e' anche una
 altro  aspetto  da  considerare.    La disposizione sulla generalita'
 dell'accordo   come   modello    di    formazione    della    volota'
 dell'Amministrazione e' contenuta, per l'appunto, nell'art. 11, norma
 del  Capo  III della legge intitolata "partecipazione al procedimento
 amministrativo".  Le disposizioni sulla partecipazione  di  cui  agli
 articoli  da 7 a 13, sono, dalla legge stessa (art. 13), ritenute non
 applicabili   "nei   confronti    dell'attivita'    della    pubblica
 amministrazione   diretta   alla   emanazione   di   atti  normativi,
 amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione, per i
 quali  restano  ferme  le  particolari  norme  che  ne  regolano   la
 formazione".       Dal   che   consegue   che   i   procedimenti   di
 pianificazione/programmazione    sono    espressamente    qualificati
 "speciali"  e,  come tali, insensibili, in ragione della peculiarita'
 degli istituti che disciplinano e  degli  interessi  che  perseguono,
 alle  nuove  regole  dettate,  in tema di partecipazione, dalla legge
 generale sul procedimento.
   Il disegno organizzativo della legge n. 865/1971 prevede,  infatti,
 come  necessaria  l'afferenza  al patrimonio indisponibile del comune
 delle aree p.e.e.p. non cedute in  proprieta',  e  non  gia'  che  la
 totalita'  delle  stesse resti ai precedenti proprietari, per di piu'
 (come nel caso di specie)  privi  dei  requisiti  per  l'assegnazione
 degli alloggi.
   Sul  primo  punto  si  deve,  quindi,  concludere  nel senso che il
 procedimento di realizzazione del p.e.e.p.,  di  cui  alla  legge  n.
 865/1971,   per  la  specialita'  della  materia  oltre  che  per  le
 peculiarita' dei fini  che  persegue,  e'  del  tutto  rigido  e  non
 ammette, in ossequio ai principi posti dal sopravvenuto art. 11 della
 legge  n.  241/1990,  quale  modello  alternativo  alla generalizzata
 espropriazione  dei  fondi,  la  realizzazione  del  piano   mediante
 convenzione coi privati proprietari.
   4b.  -  La ricorrente Societa', peraltro, propone anche una diversa
 interpretazione  della  fattispecie  astratta,   e   cioe'   che   la
 possibilita'   di  perseguire  acccordi  vada  considerata  come  una
 facolta' dell'Ente, sempre esercitabile (del  tutto  svincolata,  nel
 caso   di   cui   ci  si  occupa,  dal  procedimento  che  disciplina
 l'esecuzione dei p.e.e.p.).
   In altre parole, la deducente afferma  che  l'accordo,  costituendo
 modello   "privatistico"  generale,  alternativo  ai  normali  canoni
 pubblicistici, consente senza meno all'Amministrazione di  realizzare
 gli   scopi   indicati   dalle   norme  prescindendo  totalmente  dal
 procedimento in cui esso accordo viene  inserito  o  al  quale  va  a
 collegarsi.
   E  poiche',  nella  specie,  l'unico  fine  che  la norma esige sia
 perseguito  e'  quello  della  realizzazione  di  alloggi  a   prezzi
 calmierati  da  destinare  alle  fasce  sociali meno abbienti, e tale
 scopo viene, con la convenzione, in toto raggiunto, non vi e'  motivo
 di non ritenere legittima l'attivita' compiuta dal comune.
   O   meglio,   la   Societa'   ricorrente  ipotizza  che  il  modulo
 privatistico, oltre ad essere sempre utilizzabile, in  ragione  della
 sua   flessibilita'   vada  preferito  ogni  qual  volta  il  privato
 (destinatario  dell'attivita')   manifesti   la   disponibilita'   di
 addivenire ad un accordo; riservando, per contro, l'imperativita' del
 provvedimento  ai  soli  casi in cui la volonta' dell'Amministrazione
 debba   essere   imposta   contro   quella   del    privato.    Anche
 quest'argomentazione,  pur  abile  e  affascinante,  non puo' trovare
 accoglimento.
   E,  invero,  basta esaminare attentamente l'art. 11 per convincersi
 che non e' applicabile al caso di specie, neppure aderendo alla  tesi
 prospettata  che la sua ratio consista nel riconoscimento della piena
 alternativa tra moduli privatistici e pubblicistici nel perseguimento
 dei fini dell'Amministrazione.
   Invero, l'art. 11 prevede due distinti dipi di accordi: quelli  che
 vengono  conclusi  "al fine di determinare il contenuto discrezionale
 dell'atto" (accordi infraprocedimentali, che non riguardano  il  caso
 all'oggetto), e quelli "sostitutivi del provvedimento".
   Quanto  a  questi  ultimi, l'art. 11 espressamente dispone che essi
 possano essere conclusi solo "nei casi previsti dalla legge".
   Cio' sta' a significare due cose: da un  lato  che  non  eiste,  in
 linea generale, totale alternativita', nel perseguimento dei pubblici
 interessi, tra il modulo pubblicistico e quello privatistico, tant'e'
 che l'accordo che tien luogo all'atto e' ammesso solo nei casi in cui
 la   legge   lo   consenta;   secondariamente   che  la  fattibilita'
 dell'accordo sostitutivo  costituisce  un  dato  di  stretto  diritto
 positivo.    Nella specie, il procedimento di attuazione dei p.e.e.p.
 non prevede affatto  l'accordo  quale  alternativa  al  provvedimento
 espropriativo,   ma   solo   la  convenzione  come  "appendice"  alla
 concessione e cessione delle  aree  (rispettivamente  in  diritto  di
 superficie e in proprieta' piena), con contenuto che, peraltro, viene
 "determinato"  dal  consiglio  comunale  in  sede di assunzione delle
 relative delibere.  In assenza di una norma  ad  hoc,  pertanto,  non
 puo'  ritenersi  mai  ammissibile,  in  subiecta  materia,  l'accordo
 sostitutivo.  Che, nell'ipotesi all'esame, le parti  avessero  inteso
 realizzare  proprio  un  accordo sostitutivo e' indubitabile: infatti
 esso  ha  la  funzione  di  porsi  come  alterantiva   di   carattere
 privatistico   alla   realizzazione   del   p.e.e.p.,  in  luogo  del
 tradizionale  (e   unico)   modello   legale   caratterizzato   dalla
 generalita'  dell'espressione  delle  aree.    La  conclusione cui si
 dovrebbe pervenire, a questo punto, e'  quella  della  reiezione  del
 ricorso,  poiche'  i  due  motivi  su  cui  si  articola  (violazione
 dell'art. 35 della legge n. 865/1971, e falsa applicazione  dell'art.
 11 della legge n. 241/1990) non appaiono fondati.
   5.  -  Tuttavia, il Collegio ritiene che in ragione anche di altre,
 diverse, sopravvenienze normative (che verranno appresso illustrate),
 nonche'  di  un  emergente  mutamento  di  orientamento   in   merito
 all'opportunita' e convenienza del formarsi di una sorta di manomorta
 comunale  (quali  sono  le  aree p.e.e.p.), sia seriamente dubitabile
 l'attuale conformita' dell'art.  35  della  legge  n.  876/1971  alla
 Costituzione,  nella parte in cui non consente ai privati proprietari
 di dar esecuzione essi stessi alle finalita' del piano per l'edilizia
 economica e popolare, come, peraltro, originariamente previsto  dalla
 legge n. 167/1962.
   Due sono le principali linee di tendenza che vanno esaminate.
   5a. - La prima e' quella che mira, in piena adesione ai principi di
 imparzialita' e buon andamento di cui all'art. 97 della Costituzione,
 alla    semplificazione    ed   all'economicita'   dei   procedimenti
 amministrativi, la cui  principale  espressione  si  ha  proprio  nei
 "principi  generali  dell'ordinamento giuridico" di cui alla legge n.
 241/1990.
   Tra   i   principi   atti   a   garantire   il    buon    andamento
 dell'Amministrazione vanno, senza meno, annoverati anche quelli della
 massima  collaborazioen  coi  privati  (i  quali  possono, come si e'
 visto, contribuire a determinare  il  contenuto  discrezionale  degli
 atti)  e  della  piena  fungibilita' dello strumento autoritativo con
 quello concordato, laddove il fine (ovvero l'assetto degli interessi)
 voluto dalla legge sia raggiunto.
   (Per un'esplicita enunciazione, cfr.: Cons. Giust. Amm.  Reg.  Sic.
 n. 336 del 4 novembre 1995).
   Per  quanto  riguarda,  in  particolare,  i  rapporti connessi alla
 pianificazione   e   programmazione   urbanistica   e    alla    loro
 realizzazione,  va  osservato  che  se  la pianificazione generale e'
 sempre rimessa alla mano pubblica, in ragione della  rilevanza  degli
 interessi  che vi sono sottesi, non altrettanto puo' dirsi per quella
 esecutiva e per la fase  di  concreta  attuazione,  che  ben  possono
 essere rimesse anche ai privati (su questo punto, cfr.: Tar Veneto, I
 sez. n. 513 del 30 marzo 1996).
   Allo  stesso  modo, in tema di programmi di recupero urbano (di cui
 all'art. 11, comma 5, del d.-l. 5 ottobre 1993  n.  398,  convertito,
 con   modificazioni,  in  legge  4  dicembre  1993  n.  493),  si  e'
 espressamente previsto che  i  comuni  promuovono  la  formazione  (e
 pervengono   all'approvazione)   dei  programmi  di  recupero  urbano
 proposti da "soggetti pubblici o privati" (art. 1.3  della  Direttiva
 emessa  con d.m. 1 dicembre 1994).  Non diversamente in D.M.LL.PP. 21
 dicembre  1994,  in  tema  di  finanziamenti  per  i  programmmi   di
 riqualificazione  urbana,  di cui alla legge 17 febbraio 1992 n. 179,
 all'art. 5 dell'All. 1, stabilisce che taluni degli interventi, e, in
 particolare,  la  "realizzazione   o   ampliamento   dei   fabbricati
 residenziali  e non" possono essere "pubblici o privati a seconda del
 regime  di  proprieta'  attribuito   all'immobile",   e   che   detti
 interventi,   se   privati,   possono  essere  effettuati  (art.  11)
 direttamente dai proprietari degli immboli "singoli o  associati"  e,
 ancorche'  pubblici, possono essere realizzati (art. 8 lett. g) e h))
 anche per "assunzione diretta, da parte del soggetto privato".
   Significative sono, poi, le disposizioni di cui all'art.  3,  comma
 4,  che  stabilisce  che  le  richieste di finanziamento, che possono
 provenire unicamente dai comuni interessati,  debbono  contenere  gli
 "atti d'obbligo" o "le convenzioni" sottoscritti dai soggetti privati
 che  partecipano  al  programma,  coi  contenuti  di  cui all'art. 7,
 nonche' dell'art. 6 comma 3, ove si precisa che il comune promuove  e
 valuta,  con  procedure  autonomamente  determinate  (quali  "accordi
 diretti, invito pubblico, confronto concorrenziale"), le proposte che
 pervengono dai soggetti interessati alla realizzazione del  programma
 "in  relazione  al perseguimento degli obiettivi".  Da quanto esposto
 puo'   desumersi   che   l'intero   sistema   dell'esecuzione   della
 pianificazione  urbanistica va (o, per meglio dire, ritorna) verso un
 modello caratterizzato  dall'indifferenza  del  soggetto  che  opera,
 purche' le scelte di fondo e il controllo dell'intera attivita' siano
 comunque posti in essere dal soggetto pubblico.
   5b.  -  Il  secondo  aspetto  riguarda  l'assetto  delle proprieta'
 risultante dalla realizzazione dei p.e.e.p.  Non vi e' dubbio che, in
 origine, la ratio della  legge  n.  865/1971  fosse  proprio  di  far
 entrare  le aree non trasferite in proprieta' ai terzi nel patrimonio
 indisponibile  del  comune.    Tuttavia  se  un  tale  fine  appariva
 essenziale  e degno di essere perseguito inmodo assoluto nel 1971, lo
 stesso non puo' dirsi oggi; tant'e' che con la legge 28 dicembre 1995
 n. 549 (art. 3, comma 75) si e'  dato  il  via  ad  un  programma  di
 dismissione,  da  parte  dei  comuni, delle aree p.e.e.p. concesse in
 diritto di superficie ai  sensi  dell'art.    35.    Cio'  significa,
 inequivocabilmente,  che  una  delle finalita' di maggior momento che
 avevano ispirato la riforma del  sistema  dell'edilizia  economica  e
 popolare  del 1971, ha perso ogni attualita'.  Alla stregua di quanto
 esposto l'obbligo, sancito dal ricordato art. 35, di dare  attuazione
 al  p.e.e.p.  solo  tramite  espropriazione generalizzata delle aree,
 senza la possibilita' di consentire, mediante convenzione o  accordo,
 ai proprietari interessati di eseguire direttamente le opere previste
 (pur  nel  rispetto  dei  prescritti  presupposti  e  delle finalita'
 pubbliche)  appare  in  contrasto  sia  con  il  principio  di   buon
 andamento,  di  cui  all'art.  97 della Costituzione, cosi' come reso
 esplicito dalla legge n. 241/1990, sia con gli artt. 41  e  42.    In
 merito  a  questi ultimi, si osserva che il principio di funzionalizz
 azione del  diritto  di  proprieta',  consta  della  possibilita'  di
 imposizione  di  limiti, che giungono fino all'ablazione, "allo scopo
 di assicurarne la funzionale  sociale  e  di  renderla  accessbile  a
 tutti".
   Peraltro,  il  fatto  che la proprieta' privata sia "riconosciuta e
 garantita" implica necessariamente che l'espropriazione vada limitata
 a quei casi in cui non appaia  possibile  ottenere  il  risultato  di
 "assicurarne  la  funzione  sociale"  semplicemente ponendo limiti di
 minore entita'.   Il  che,  nel  caso  di  specie  non  e':  infatti,
 consentendo che (nel rispetto delle finalita' previste) i proprietari
 stessi  realizzino  le  prescrizioni  del  p.e.e.p. si perviene ad un
 indubbio risparmio in termini economici,  di  tempo  e  di  attivita'
 procedimentale,  nel  contempo non sacrificando la proprieta' privata
 al di la' di quanto risulta necessario  per  il  conseguimento  delle
 utilita'  che  l'Ente  pubblico si prefigge di conseguire.  Del pari,
 consentendo ai privati proprietari di dare essi stessi attuazione  ai
 programmi  di  edilizia  economica  e  popolare,  sotto  il controllo
 dell'Ente  competente,  si  rispetta  il  principio  di  liberta'  di
 intrapresa  economica  garantita dall'art. 41, conformandola "perche'
 possa essere indirizzata e coordinata ai fini sociali".
   Ad  avviso  del  Collegio,  quindi,  va  sollevata   questione   di
 legittimita'  costituzionale  dell'art.  35  della legge n. 865/1971,
 nella parte in  cui  non  prevede  la  possibilita',  per  i  privati
 proprietari,  di  dar  esecuzione  direttamente alle prescrizioni del
 p.e.e.p., con lo strumento dell'accordo col comune  interessato,  per
 contrasto  con  le  disposizioni  di cui agli artt. 97, 41 e 42 della
 Costituzione e coi principi generali  che  da  tali  norme  derivano,
 cosi'   come   resi   palesi   anche  dall'evoluzione  normativa  che
 caratterizza lo specifico settore.   La questione  appare  rilevante,
 nel   presente   giudizio,  in  quanto  l'applicazioe  dell'art.  35,
 sospettato di incostituzionalita', e' determinante per la risoluzione
 della controversia; e non manifestamente infondata alla stregua delle
 osservazioni che si sono svolte in precedenza.